di Claudio Naranjo, pubblicato da Terra Nuova Edizioni

Un passo tratto dal libro ” La rivoluzione che stavamo aspettando”

 

Ecologia profonda, educazione etica e consapevolezza per vivere la crisi come rinascita. 

… L’argomento di questo capitolo si inserisce nel tema più ampio per cui, così come a livello individuale coesistono vita e patologia, nella dimensione collettiva accade che al contempo evolviamo e veniamo travolti da una patologia globale che è come un cancro della comunità e della storia. Inoltre fa riferimento alla questione del potenziale apporto della meditazione a una futura educazione, dalla cui impostazione — posto che dietro le molteplici manifestazioni dei problemi del mondo vi è la dimenticanza della coscienza — dipende l’importanza di affrontare il cambiamento sociale per mezzo di una riforma dell’educazione.

Un aspetto della meditazione è la quiete, il sospendere il flusso del pensiero.

Siamo sempre in movimento, stiamo sempre facendo qualcosa, e non ci rendiamo conto della nostra coazione a fare, la cui forma sottile è una compulsione a generare pensieri e una costrizione a voler colmare il vuoto del nostro essere con qualcosa del nostro passato o del nostro futuro: la prossima mossa, la prossima cosa, il prossimo progetto, la prossima conquista.

Già alcuni secoli addietro, Pascal diceva che il problema del mondo è che gli individui non riescono a starsene tranquilli nelle loro abitazioni, e credo che a tal proposito avesse ragione più di quanto si pensi di solito. Vi è in ogni persona una mancanza di pace e la corrispondente incapacità di essere soddisfatti di sé e della vita, cosa che è di profonda rilevanza per la pace nel mondo. 

La quiete è una pratica di meditazione che possiede molte forme e la ritroviamo in molte tradizioni: nell’induismo, nel buddhismo, nel taoismo, nel sufismo e nel cristianesimo.

I Padri della Chiesa pensavano che chi non giunge al silenzio non può accedere alla comunione, vale a dire che non c’è incontro col divino se in primo luogo non si riesce ad avere una mente silenziosa. Questa fu la grande peculiarità di San Giovanni della Croce, e Santa Teresa lo scelse come il più competente educatore dei novizi quando fondò l’Ordine dei Carmelitani.

La pratica della quiete, naturalmente, non coinvolge solo il corpo, ma anche il pensiero.Però chi prova a lasciar riposare il proprio pensiero scopre che l’ostacolo è l’agitazione emozionale, cioè essere in cerca di qualcosa di non definito. La nostra eccessiva agitazione affonda le sue radici nel mondo dei bisogni nevrotici o delle passioni, che altro non sono che ciò che gli antichi chiamavano peccati. Non può restarsene quieta, ad esempio, una persona che ha troppa ambizione, poiché l’ambizioso è qualcuno che sta sempre lottando per un progetto, creando qualcosa o immaginando future possibilità, e starsene quieto lo indurrà ad avvertire che sta perdendo tempo. Ma neanche una persona troppo invidiosa può rimanere quieta. Tutti quei peccati conosciuti dagli antichi hanno in comune il problema di allontanarci dalla pace della quiete.

Perciò possiamo considerare la pratica della quiete come una panacea: cura tutte le nostre coercizioni automatiche, a seconda del nostro peculiare tipo di ego (o dei diversi tipi di macchina psicologica). Le motivazioni che dominano i vari tipi di persone sono differenti, di modo che possiamo affermare che vi siano menti codarde, pigre, lussuriose (che ricercano sempre l’intensità per sentirsi vive), menti comode (che desiderano sentire che tutto è comodo e al calduccio, poiché cercano il piacere e vogliono allontanare il dispiacere) — e tutto questo perde qualcosa del suo potere nella persona che intende distanziarsi dal suo pensiero.

Colui che vive completamente avviluppato nei suoi pensieri non vede al di là di essi e smarrisce il contatto con le proprie esperienze psichiche..

La vita ordinaria è una condizione in cui siamo talmente assorti nei nostri ricordi, nelle nostre anticipazioni del futuro e nei nostri commenti sulla vita stessa, che non viviamo neanche il presente. Soprattutto, non stiamo vivendo quell’aspetto del presente che è il semplice essere, o l’essere lì. Essere presenti, semplicemente sentendo la nostra esistenza, ci sembra poco interessante. Tale presenza non è molto apprezzata oggi che si dà valore soprattutto all’informazione e a ciò che è pratico. L’essere semplicemente non ha valore pratico, e solo coloro che cominciano a progredire interiormente iniziano a ragionare su cosa sia l’essere presente, o il sapersi presente.

A volte incontro delle persone che alla domanda: “Cosa cerchi nella vita?”, mi rispondono: “Essere qui ed ora”, e questo mi sembra un segno di inusuale maturità. Una volta partecipai a un forum sull’educazione e accanto avevo una persona che praticava il buddhismo Zen. Qualcuno dal pubblico gli domandò: “Che cos’è Dio per te?” e mi piacque la sua risposta insolita, “Io credo che Dio sia cogliere il momento presente, che percepiamo solo vagamente e con ritardo”. Vale a dire: Dio ci sfugge di attimo in attimo, ed è una intuizione di ciò che sentiamo come il nostro essere profondo, che in realtà non è nostro né di nessuno, ma semplicemente l’Essere. Il non fuggire dal presente per mezzo del lavoro dell’immaginazione è una porta d’accesso a questa sensazione di esistere a cui diamo tanto poco valore a paragone dei nostri progetti e delle nostre ambizioni, ma che a sua volta è l’inizio della scoperta che la vita è sacra. E se non prendiamo contatto col nostro Essere, non abbiamo contatto con l’Essere di nessuno. Tutto si trasforma allora in pensieri, astrazioni, cose…

La quiete, quindi, è una grande porta. Una porta che, in ultima analisi, è un mistero, perché non lo abbiamo ancora vissuto. Ma una porta che sembra essere come l’acqua per i pesci, che non la percepiscono, proprio perché in essa vivono. Niente di più familiare che “noi stessi”, il soggetto della nostra propria coscienza, che ci è diventato invisibile a ragione della sua stessa familiarità. Del resto, se coltiviamo questo “io sono” innaffiandolo con attenzione come una pianticella alla quale si dà acqua ogni giorno, si andrà trasformando non solo in una fonte di pace, ma anche di grande benessere.

Una pace che non è assenza di conflitti, ma qualcosa come una forza interiore che può permanere anche in mezzo alle turbolenze dei nostri conflitti.

L’educazione alla pace mi sembra un importante bisogno umano, ma dobbiamo comprendere che la pace nel mondo richiede la pace interiore. E sarebbe un dono importante per qualsiasi persona poter raggiungere una maggiore tranquillità semplicemente nell’incontrarsi con l’immobile profondità della propria mente, invece di perdersi nella molteplicità dei suoi impulsi e nelle astrazioni del pensare.

Cosa costerebbe farlo? Sarebbe necessario che vi fossero abbastanza persone che comprendessero l’argomento, e che sorgesse qualche iniziativa a tal proposito. Solo che è difficile prendere iniziative nelle grandi burocrazie. Ho sempre detto che il sistema educativo mi sembra un grande elefante bianco, fra tutte le burocrazie la più difficile da far funzionare. E sappiamo che le grandi burocrazie iniziano per servire a qualcosa e finiscono per servire a se stesse. Questo è un grande problema sociologico. Tuttavia spero che un giorno si comprenderà che la meditazione costituisce un tema importante e trascurato dell’educazione.

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Testo tratto dal libro “La Rivoluzione che stavamo aspettando” in vendita in offerta su www.terranuovalibri.it