Se un giorno entrassi in una stanza piena di mamme e dichiarassi che la nascita non è un’ esperienza dolorosa, sicuramente tutte si rivolterebbero indignate contro di me. Al contrario, l’idea che la nascita possa essere dolorosa per il bambino così come lo è per la madre, ha ancora pochissimo peso.
Sappiamo che il dolore per la madre è causato dal contatto del bambino -in particolare la testa e le spalle- con la cervice e le ossa della pelvi, ed è sorprendente che sia data così scarsa attenzione all’esperienza che il bambino fa di questo contatto. Questo è particolarmente vero se consideriamo le ossa del cranio dell’infante che sono sottilissime e morbide.
Che i bambini siano profondamente influenzati dal modo in cui nascono e che questo abbia conseguenze profonde attraverso la vita, è, nella mia esperienza clinica, una realtà che su cui non ho più alcuna riserva.
Il mio interesse non riguarda tanto come la nascita dovrebbe o non dovrebbe essere. Troppo spesso gli uomini hanno interferito in un processo che nelle culture tradizionali era territorio esclusivo delle donne. Il mio interesse è piuttosto quello di prendere le parti di quei bambini le cui voci non sono state ascoltate. E’ di portare l’attenzione a quella cecità culturale, che non riesce a vedere come la nascita, e la nostra esperienza nell’utero materno, modellino la nostra vita, il senso di chi siamo e il mondo che abitiamo. La psicologia pre e peri- natale è una branca ancora semi sconosciuta della psicologia, che si occupa delle primissime esperienze della vita.
Nel corso degli ultimi decenni sono diventate disponibili moltissime evidenze, studi, ricerche su questo tema. Dati che provengono dalle ecografie, dalle ricerche sulle origini fetali, studi sulla consapevolezza, la teoria del campo e la biologia cellulare che danno credibilità alle esperienze degli psicoterapeuti, le memorie di esperienze molto precoci che emergono nel lavoro a orientamento somatico. Il mio interesse su questo soggetto è emerso dal lavoro di craniosacralista e psicoterapeuta. Nel mio training di craniosacrale ho imparato a lavorare con le conseguenze strutturali dei traumi della nascita, ma non con il loro contenuto esperienziale. Man mano che continuavo a lavorare, mi resi conto che i bambini esprimevano la loro esperienza attraverso il linguaggio del corpo e il pianto. Quest’ultimo infatti non sempre si riferiva a un bisogno.
Essenzialmente i bambini mi raccontavano la loro storia, sebbene io fossi a quel tempo in grado di seguire solo una parte di questa. C’era sicuramente qualcosa che non riuscivo a capire. Questo mi ha condotto a viaggiare sino alla Svizzera per lavorare con Karlton Terry, fondatore dell’ Institute for Pre and Perinatal Education e, più tardi, di organizzare corsi e insegnare con lui in Inghilterra. Attraverso il lavoro con Karlton sono stato in grado di avere accesso e risolvere molti dei miei traumi pre e perinatali e di approfondire la mia comprensione su ciò che i bambini volevano comunicare. Inizialmente la profondità della comprensione che vedevo in Karlton nel suo lavoro con i bambini mi sembrava qualcosa di magico e strabiliante. Poi, col tempo, sono riuscito a integrare queste nuove comprensioni nel mio lavoro, sia con gli adulti, che con i bambini.
Il mondo interno del bambino
Noi tutti tratteniamo esperienze nei nostri corpi e il concetto di memoria del corpo è ormai ampiamente riconosciuto tra i terapeuti a orientamento corporeo. Crescendo non veniamo educati o incoraggiati a portare attenzione al nostro mondo interno di sensazioni e immagini. La conoscenza cognitiva diventa prioritaria e noi perdiamo il contatto con il flusso dell’esperienza incarnata finché questa diventa un sussurro nell’ombra, piuttosto che una ricca sorgente di consapevolezza e sensibilità. I bambini sono profondamente immersi nella loro esperienza corporea, che è immediata e vitale. Non hanno concetti o more sociali che li distraggano dall’esprimere, senza inibizioni, ciò che sentono. Karlton lo definisce ‘baby body language’, un intera gamma di espressioni emotive, che va dalla disperazione intensa, alla gioia radiosa. E’ da bambini che impariamo ciò che è accettabile e ciò che non lo è, quando veniamo distolti da un certo tipo di esperienze e ricompensati per altre. Non è un caso che tendiamo a chiamare buoni i bambini che sono calmi. Ma non sempre un bambino calmo è un bambino felice. Potrebbe anche essere un bambino che ha rinunciato a quel contatto empatico di cui aveva bisogno.
E’ stato documentato che i bambini fioriscono con l’empatia. Rispondono alle espressioni facciali e al tono della voce come il partner in una danza.
Quello che è meno compreso è che i bambini non esprimono solo i loro bisogni immediati, ma anche le esperienze trattenute nel corpo che derivano dalla nascita e dalla vita nell’utero.
I bambini sono profondamente in contatto con la memoria del corpo, molto di più di quanto lo sia la maggioranza di noi adulti.
Uno dei motivi per cui i bambini piangono di più quando sono stanchi o a una cert’ora della notte, è perché, non essendo distratti, sentono più acutamente i loro vissuti corporei. Lo possiamo sperimentare anche da adulti quando ci rilassiamo o ci lasciamo andare al sonno. Iniziamo a diventare consapevoli di dolori che non notavamo durante il giorno. Ci sovvengono ricordi, questioni che ci disturbano. Potremmo sentirci in ansia per questioni che avevamo tralasciato durante il giorno. Per i bimbi è lo stesso: ad eccezione del fatto che loro non hanno la storia fatta di parole, ma di sensazioni e immagini.
Pianto di bisogno e pianto di memoria
Una delle competenze più utili che ho imparato da Karlton è il saper distinguere un pianto che esprime un bisogno da un pianto che esprime una memoria. Il primo ci parla dell’essere affamati, scomodi, sovra o sotto stimolati, stanchi. Quando questi bisogni di base vengono soddisfatti il pianto si interrompe e il bambino si calma. Il pianto che esprime una memoria avviene quando il bambino ha sensazioni e immagini che sono relative alle sue esperienze precedenti, come i momenti durante la nascita in cui si è sentito sopraffatto. Questo pianto si associa a movimenti corporei ripetitivi: spingere freneticamente con le gambe, grattare e sfregare continuamente una parte della testa, o il tirare ripetutamente un orecchio. Questi movimenti a volte esprimono un impulso che era stato bloccato come potrebbe essere il tentativo di spingere attraverso il canale del parto bloccato da un anestetico. Potrebbero anche indicare un’area del cranio compressa dalle ossa del bacino o un momento in cui il bambino si è sentito disorientato e perduto. Ci sono momenti, nel processo di nascita, in cui il bambino non sa se riuscirà a sopravvivere come quando è sospinto da una pressione troppo intensa, inondato dagli ormoni dello stress o dai farmaci che arrivano dal cordone ombelicale, deprivato di ossigeno per la compressione durante le contrazioni. I neonati e i bambini esprimono emozioni forti che ognuno di noi associa a queste esperienze: rabbia, panico, tristezza, disorientamento.
I bambini si sentono zittiti quando un pianto di memoria viene accolto come se fosse un pianto di bisogno e dopo innumerevoli tentativi rinunciano ad ottenere ascolto, rinunciano a una risposta empatica. Questa rinuncia spesso viene spesso scambiata per contentezza perché il bambino appare calmo e buono. Ma immaginate il seguente scenario: state tornando a casa quando uno sconosciuto si avvicina. Bruscamente vvi spinge in un vicolo e minaccia di colpirvi se non gli date i soldi. Cercate di dargli quello che avete, lui vi spinge e vi fa cadere. Spaventati e disorientati lentamente vi rialzate, vi guardate intorno per accertarvi che sia andato via. Vedendo che in effetti è andato incominciate a tremare, ma il vostro primo pensiero è di mettervi in salvo. Quindi, cercando di rimettervi insieme in qualche modo, andate verso casa. Arrivati alla porta di casa vedete e la vostra partner che vi viene incontro. Le vostre emozioni finalmente possono uscire, iniziate a tremare e piangere. Ciò di cui avete più bisogno è di poter raccontare la vostra storia e avere la vostra partner che vi ascolta. Immaginate invece che vi dica di fare silenzio e vi infili una nocciolina in bocca. Se questa scena si ripete per un numero sufficiente di volte voi deciderete che non vale la pena raccontare la vostra storia. Inizialmente vi sentirete furibondi, ma col tempo vi rassegnerete. In superficie sembrerete calmi, ma sotto ci sarà un enorme quantità di stress e risentimento. Questa situazione è analoga a quella di un neonato che piange perché ricorda e come risposta viene attaccato al seno e gli viene chiesto di stare zitto.
Dove l’analogia non regge è che noi dovremmo essere incredibilmente insensibili per non riconoscere i segnali di un partner adulto che sta esprimendo stress dopo una situazione traumatica.
Come genitori siamo spesso confusi di fronte al pianto del nostro figlio e non sappiamo come rispondere.
Ci hanno insegnato che i bambini piangono perché hanno fame, freddo, o perché vogliono essere cambiati. Non ci è mai stato detto che è importante parlare con i bambini dei traumi che hanno incontrato e che un ascolto empatico poteva aiutarli a lasciare andare quello stress.
Karlton ha sottolineato il valore dell’ ‘empatia accurata’: rispecchiare i movimenti del corpo, riconoscere ciò che stai vedendo e sentendo nell’espressione bambino. Potremmo dirgli per esempio: “Sembri molto triste” oppure: “Posso sentire quanto sei arrabbiato” I bimbi sentono quando li stai incontrando con un’ empatia accurata. Il baby body language è una lingua esatta e, attraverso lo studio e un training appropriato, è possibile identificare con precisione lo stadio del processo di nascita di cui il bambino ci sta parlando.
Il supporto ai genitori
Aiutare i genitori a distinguere tra un pianto che esprime un bisogno da quello che esprime una memoria è uno dei fattori più importanti nel lavoro con i bambini. Questo richiede un cambiamento di paradigma piuttosto profondo. Un’altra considerazione clinica è la soglia di tolleranza dei genitori. E’ faticoso per i genitori ascoltare la storia dei propri figli perché li rende consapevoli di quanto sia stato doloroso il processo di nascita per il loro bambino. Ma è proprio attraverso l’ascolto e il riconoscimento del dolore, che il bambino può completare e superare quel vissuto. L’ho visto così tante volte nella pratica clinica che non nutro più dubbi in proposito. Quando il bambino rilascia lo stress il suo corpo diventa più morbido e vitale. Molti sintomi come per esempio le coliche, che sono spesso l’espressione di un pianto di memoria, scompaiono appena il trauma sottostante si risolve. Comportamenti ripetitivi e movimenti frenetici e ossessivi non vengono più espressi.
Aiutare i genitori a leggere il baby body language e le nuances emozionali del bambino risveglia una nuova consapevolezza dell’innata saggezza dei propri figli.
Ciò che sembrava incomprensibile ora acquista senso. Coinvolgere i genitori nel processo e lavorare con il loro permesso passo dopo passo, li fa sentire nel loro potere e genera quella sicurezza che permette di continuare a supportare i loro bambini anche fuori dalla sessione. Quando il sintomo si allevia, la comunicazione diventa più facile e il legame familiare si approfondisce. Un bambino che piange senza un’
evidente ragione crea confusione e tensione nella vita familiare. Il pianto costante sconvolge le relazioni tra i genitori e il bambino e tra gli altri membri della famiglia. Crea una forte pressione sui genitori che cercano di fare il loro meglio per rispondere ai bisogni del bambino, senza però riuscire a calmarlo. Nessuno prima gli aveva parlato del pianto di memoria e loro non sanno cosa fare.
Le conseguenze di un trauma non risolto
E’ difficile riconoscere il dolore attraversato dal bambino per arrivare fino a noi. Forse questo è uno dei motivi per cui ci è così difficile guardare ai traumi della nascita. Un’altra ragione potrebbe essere che questo dolore risuona con i nostri traumi irrisolti. Questo coinvolge molti diversi livelli: fisico, emozionale e psicologico. A livello del corpo fisico forze di compressione e di torsione possono rimanere trattenute nel corpo. I pattern di compensazione creano a loro volta delle tensioni nel corpo e creano una miriade di problemi di salute. I più ovvi sono problemi di schiena,
emicranie, tematiche dentali, tensioni muscolari e disfunzioni organiche. Un trauma irrisolto ha un effetto anche a livello del sistema nervoso che rimane sensibile allo stress con risposte di sopravvivenza che vanno ben oltre quelle necessarie ad affrontare il problema che si pone nel presente. Michel Odent, pioniere nel lavoro sulla nascita, paragona questo processo di sensibilizzazione a un termostato che è stato regolato troppo in basso e che si accende quando in realtà non è ancora necessario. (Odent 1986) Questo rende difficile la regolazione emozionale e quindi la relazione con gli altri. Ci sono periodi in cui siamo sotto pressione, o stiamo attraversando un cambiamento, in cui queste risposte di sopravvivenza vengono stimolate con facilità. Una separazione dalla madre durante l’infanzia, andare all’asilo nido o a scuola, la pubertà,cambiare casa, iniziare un nuovo lavoro o una nuova relazione, ecc.
Le conseguenze psicologiche di un trauma irrisolto si intessono nelle nostre vite in molti modi.
Bambini che si sono sentiti sottrarre il proprio potere personale dall’intervento medico, potrebbero crescere con questo senso di mancanza di potere e fiducia in se stessi. Bambini che si sono sentiti invasi da un intervento medico potrebbero rifiutare aiuto e diventare estremamente anti-autoritari. Chi si è sentito tratto in salvo da un intervento potrebbe sviluppare la tendenza di chiedere di essere salvato dagli altri ogni volta che si sente sotto pressione. Ma non sono solo gli interventi medici che creano queste attitudini e convincimenti. Anche in una nascita libera da interventi i bambini vivono stress intensi che possono creare convinzioni profonde Uno dei motivi è che il sistema nervoso tende a creare connessioni neurologiche intorno agli eventi che sono stati molto stressanti o minacciosi per la vita.
Questo ci permette di identificare e prevedere un pericolo e quindi di aumentare le possibilità di sopravvivenza. L’altro lato della medaglia è che queste attitudini possono portarci a scelte che non sempre ci sono utili, oppure ci possono limitare nella capacità di sviluppare altre competenze. Queste non sono considerazioni teoriche, ma temi reali che emergono in terapia nel lavoro con gli adulti. Molti terapeuti, incluso me stesso, non hanno iniziato la loro carriera pensando che la nascita avesse un così profondo impatto su di noi. Sono stati i nostri clienti a condurci a queste conclusioni e non il contrario.
I traumi precoci non sono solo il prodotto della nascita. La nascita è solo un evento, anche se uno dei più importanti nel continuum dell’esperienza. Come ci siamo relazionati e abbiamo comunicato quando eravamo nell’utero crea il nostro tono emotivo di base. Come siamo stati ascoltati e accolti dopo la nascita è anche molto importante. Se veniamo ascoltati con empatia accurata siamo in grado di rilasciare le tensioni e gli ormoni dello stress che si sono accumulati nel corpo.
Se veniamo ascoltati possiamo sviluppare autostima. Sappiamo che il mondo ci considera degni di essere ascoltati e che i nostri bisogni possono essere accolti.
Il grande dono nel riconoscere i traumi della nascita è che finalmente possiamo vedere i neonati come essere umani senzienti che hanno avuto esperienze e che possono comunicarci queste esperienze.
Da quando lavoro sui primi processi della vita sono arrivato a sentire che molto della bassa autostima e il senso di essere cattivi o sbagliati è dovuto alla mancanza di consapevolezza di quanto siamo consci e senzienti già nella vita intrauterina e alla nascita. Abbiamo bisogno di essere supportati e contenuti nella consapevolezza per avere fiducia di essere okay e che il mondo sia okay. Le culture tradizionali conoscono già da molto tempo ciò che la psicologia pre e perinatale sta scoprendo oggi. Nella cultura tibetana, per esempio, la coppia si prepara in molti modi prima del concepimento. E’ un momento importante per preparare il corpo, la mente, le emozioni e lo spirito e quindi per essere pronti a invitare il bambino nell’utero.(Maiden and Farwell, 1997, p.13)
Quando il Dalai Lama incontrò per la prima volta gli psicologi occidentali, rimase completamente stupefatto di fronte alla nozione di bassa auto-stima di cui sentiva parlare.’ (Epstein, 2001, p.84)
Secondo gli Sobonofu Some of the West African tribe the Dagara, ‘Molte persone nel mondo non pensano che i neonati siano così altamente sensibili e così facilmente influenzabili, ma di sicuro lo sono persino quando sono nell’utero. Infatti molti pensano che se un bambino viene colpito, non se ne ricorderà. Al contrario, i bambini immagazzinano tutti i colpi che hanno ricevuto e avranno problemi di salute fino a quando queste ferite non verranno relazionate con le prime esperienze della vita. ’ (Some, 2009, p.59) Ascoltare il pianto che ricorda e ascoltare la storia di dolore del bambino è incontrare queste ferite. Non si tratta di un ascolto facile, ma, alla lunga è molto più facile del non ascolto.
Di Matthew Appleton – Traduzione di Rosella Denicolò